QUANDO le studentesse
dell'Università di Wellesley, nel Massachusetts, videro per la prima
volta l'emigrato russo incaricato di far loro lezione di
letteratura, restarono allibite. Era il 1946 e Vladimir Nabokov
iniziava il suo corso presentandosi con una strana tenuta: scarpe
bicolori e calzettoni a scacchettoni. Il giornale universitario
riportò che il prof, distratto, non riuscendo a trovare la porta
dell'aula era entrato dalla finestra. Le allieve dell'autore di
Lolita, nonostante la stravaganza, impararono ad adorarlo.
E lui le ricambiò intensamente. Ma le corteggiava solo fuori dalla
scuola. Nell'aula, infatti, seduta in prima fila, a controllarlo
c'era quella che lui chiamava «la sua assistente». Se gli cascava un
gessetto, l'assistente lo raccoglieva, se doveva scrivere alla
lavagna lo faceva lei perché lui diceva di essere allergico alla
polvere, se gli serviva una citazione, quella strana donna
bellissima dai capelli tutti bianchi gli apriva il libro e gli
sistemava gli occhiali. In realtà era sua moglie, Vera Slonim, che
viveva con lui in vera simbiosi. Su questo rapporto dai risvolti
oscuri fa luce oggi una monumentale biografia di Stacy Schiff:
Vera (Fandango), che ripercorre la strana vita dello
scrittore. Ebrea russa, la Slonim era fuggita a Berlino. Lì conobbe
l'uomo della sua esistenza: Nabokov era per Vera anche il più grande
scrittore del secolo. Entrambi saranno poi costretti ad abbandonare
la Germania per le leggi razziali. A trent'anni Vera è
soprannominata l'Angelo grigio; a seguito delle traversie era
diventata tutta candida. La vita degli emigrati era durissima. Per
sopravvivere Nabokov dava lezioni di tennis e di pugilato. Ma era la
Slonim che in famiglia indossava i pantaloni e manteneva il figlio e
il marito. Mentre lavorava instancabilmente da mattina a sera come
dattilografa, rivedeva opere e traduzioni dello scrittore. Non solo:
gli preparava le lezioni accademiche, correggeva i compiti degli
studenti, faceva gli esami al suo posto, curava la sua
corrispondenza, amministrava le sue sostanze, arrivava persino a
cercare gli editori per i suoi libri. Nonostante i tradimenti, lo
soccorreva, da vero angelo del focolare, in tutte le sue fisime e
paranoie. Gli amici come Edmund Wilson e Mary McCarthy quando
arrivavano a casa Nabokov trovavano il pavimento coperto dalle
pagine scritte nella notte: di giorno Vera era incaricata di
metterle in ordine. Terrorizzato dal rumore e dalle correnti d'aria,
lui riteneva che l'unico posto adatto per scrivere fosse
l'automobile. Vera lo portava dove desiderava, parcheggiava la
macchina e si allontanava a piedi. Lo seguiva nell'amore per le
farfalle. La passione per l'entomologia non lo abbandonò mai,
durante il secondo conflitto mondiale correva per i prati,
sentenziando: «Le guerre passano gli insetti restano». «Era l'uomo
più dipendente dalla moglie che avessi mai incontrato», diceva un
collega dell'università. Nabokov era tanto Vera-dipendente da
evocarla nei suoi flirt: da eterno ragazzino quando faceva degli
approcci chiedeva alle giovani donne se in segno di affetto volevano
«lavargli e sistemargli i panni come faceva sua moglie». Quando
Nabokov, in piena crisi di scrittura, prese un bidone per la
spazzatura e vi gettò il dattiloscritto di Lolita per
bruciarlo, fu proprio lei a salvarlo. Sempre lei lo aveva sostenuto
nell´impresa disperata di scrivere un romanzo così audace, che si
prevedeva difficile da collocare e di scarso successo commerciale.
E´ stata realmente l'ispiratrice di tutta la sua opera. Nabokov
confessò a un amico, sapendo di non esagerare: «Senza Vera non avrei
mai scritto una riga». Un libro che Nabokov progettò a lungo ma non
scrisse mai fu quello su una coppia di gemelli siamesi. A
sconsigliarlo fu Vera che vi vedeva il riflesso del loro rapporto
simbiotico. |